La ricetta anticrisi della Germania è illogica

Interview: La ricetta anticrisi della Germania è illogica

Opinion piece (La Repubblica)
Simon Tilford
20 October 2011

Per l'economista del Centre for European Reform l'idea di Berlino che i paesi dell'Europa meridionale debbano "vivere con i propri mezzi" è moralistica e controproducente. Le politiche restrittive peggiorano la situazione. L’aiuto cinese non serve.

Simon Tilford è capo economista del Centre for European Reform. Nei suoi interventi degli ultimi due anni si è spesso concentrato sull'infondatezza della narrazione tedesca della crisi, tema che riprende in questo lungo colloquio con Limes.

LIMES: Cosa c’è di errato nella narrazione tedesca della crisi dell’euro? Perché l’economia europea non ritroverà l’equilibrio soltanto attraverso le misure di stabilità?
TILFORD: In Germania, la narrazione della crisi dell’Eurozona è all’incirca così: non è una crisi dell’Eurozona, che è stata un successo. La Bce ha portato alla stabilità dei prezzi, l’euro è diventato una valuta internazionale riconosciuta. Se alcuni Stati membri al momento hanno delle difficoltà, è perché hanno perso ‘competitività’ e violato le regole di bilancio. Ne consegue che la via per riportare la fiducia nell’euro è questa: i peccatori devono consolidare le loro finanze pubbliche e riformare le loro economie. La strada per la redenzione passa per la riscoperta di disciplina, parsimonia e duro lavoro.
Tale narrazione ha un’innegabile impronta moralistica: “Noi, paesi creditori, siamo liberi dal peccato. Gli altri paesi starebbero bene, se solo si fossero comportati come noi. Perciò il nostro comportamento va universalizzato. L’Eurozona così com’è può funzionare, se tutti i suoi Stati membri imparano a osservare le regole del club (come fanno i paesi del Nord). I paesi che rompono le regole devono essere puniti, mentre i colpevoli seriali vanno accompagnati all’uscita”. Questa narrazione passa per senso comune in Finlandia, Germania e Paesi Bassi. Ma è moralistica, autocompiaciuta e sbagliata. Inoltre, il suo messaggio implicito è probabilmente incompatibile con la sopravvivenza dell’Eurozona.

 
 
I paesi nordici ovviamente hanno ragione a dire che sono avvenuti eccessi nella periferia e a ribadire la necessità di riforme nei paesi meridionali. Ma la narrativa nordica è illogica perché è impossibile per qualunque paese “vivere con i propri mezzi” (i paesi creditori possono esistere solo se vi sono debitori). È una strada sbagliata, inoltre, perché l’aderenza alle regole di bilancio ha scarsa rilevanza per comprendere quali paesi si sono ritrovati espulsi dal mercato dei bond. Ed è comoda perché allontana l’onta del peccato dal centro. È poco edificante vedere la Germania che preme per sforzi massicci nell’Europa meridionale mentre fa pochissimo per affrontare i problemi di capitalizzazione del proprio sistema bancario.
L’ossessione per la disciplina e le regole continua a generare atteggiamenti e politiche sbagliate. La Grecia viene rimproverata per aver fallito i suoi obiettivi di bilancio, anche se la colpa va data a una contrazione del pil più ampia del previsto. Tutti i paesi dell’Eurozona cercano di provare la loro virtù riducendo la spesa pubblica nello stesso momento, e il risultato complessivo sarà una brutale politica di contrazione per l’intera regione (non è coordinamento politico, ma il contrario). Per quanto riguarda la Bce, è stata fortemente criticata in Germania per l’acquisto dei bond italiani e spagnoli, una mossa che è stata necessaria per scongiurare il collasso dell’Eurozona.

 
 
La politica macroeconomica di quest'ultima è guidata dalla fede tedesca nella favola della fiducia. I policymakers tedeschi, compreso il ministro delle Finanze, Wolfgang Schäuble, si mettono in fila per sostenere che l’austerità di bilancio, anche se perseguita allo stesso tempo da tutti gli Stati membri, non sarà depressiva, e non distruggerà l’euro. Secondo questa fede, l’austerità di bilancio farà crescere la fiducia delle famiglie e delle aziende rassicurando sulla sostenibilità delle finanze, e ciò porterà a una ripresa dei consumi e degli investimenti. Ma nessuno è in grado di citare alcun precedente storico a supporto di questa tesi, che appunto è poco più di un atto di fede. Vi sono, ovviamente, esempi di austerità di bilancio precedenti un periodo di crescita economica, ma comprendono tutti una svalutazione della moneta e/o ampi tagli dei tassi d’interesse. Nessuna di queste opzioni è aperta per le economie dell’Eurozona. Com’era prevedibile, nell’Unione la fiducia delle famiglie e delle aziende sta crollando rapidamente, deprimendo l’attività economica, e con essa la possibilità che i governi raggiungano i loro obiettivi di bilancio.

 
 
Se si mantengono queste tendenze, la maggior parte dell’Eurozona attende la depressione e la deflazione. Banca centrale europea e European financial stability facility non riusciranno a tenere sotto controllo i bond, e alcuni paesi dovranno affrontare costi insostenibili per i prestiti, fino al default. Ciò danneggerà il loro settore bancario e non saranno in grado di mobilitare i fondi necessari per la ricapitalizzazione. Bloccati in un circolo vizioso di deflazione, incapaci di ottenere risorse a costi sostenibili, e soggetti a regole di bilancio astratte e controproducenti per qualunque supporto di Efsf e Bce, molti paesi vedranno svanire il sostegno per i loro governanti. Davanti alla scelta tra la depressione permanente e un debito sempre più elevato (il crollo del pil e la deflazione portano a inesorabili aumenti del debito), decideranno di lasciare l’euro. Solo così saranno almeno in grado di stampare moneta, ricapitalizzare le loro banche e scampare la deflazione.
 
LIMES: Quali sono i suoi consigli per il prossimo presidente della Banca centrale europea, Mario Draghi? Quanto conta il suo essere italiano, oggi?
TILFORD: La nazionalità ovviamente non dovrebbe essere importante. La Banca d’Italia ha una reputazione eccellente, e i banchieri centrali italiani, come i loro colleghi britannici, hanno spesso dovuto compiere scelte in situazioni economiche difficili, e per questo tendono a essere meno ideologici, per esempio, dei tedeschi o degli olandesi. Ma nell’Eurozona la nazionalità conta, eccome. Spiace che la Bce si trovi a dover tagliare i tassi d’interesse nella prima riunione gestita da Draghi, perché sarebbe stato meglio invertire l’erronea decisione di alzare i tassi a luglio, nell’ultima della gestione Trichet. La Bce deve assumere il pieno ruolo di prestatore di ultima istanza (per esempio, comprando volumi illimitati di debito sovrano e altri asset finanziari), se vuole sopravvivere. Draghi sicuramente lo sa, ma sarà difficile convincere gli Stati creditori del nord. Ma non dovrà mai smettere di combattere, perché se concedesse troppo ai nordici, si potrebbe ritrovare a presiedere la dissoluzione dell’unione monetaria. Perciò dovrà appoggiarsi alla forza della ragione.
 
LIMES: Fin dall’inizio della crisi, abbiamo sentito la frase “soluzioni globali per problemi globali”. Quante possibilità vi sono che gli squilibri globali vengano veramente affrontati con la soluzione globale?
TILFORD: L’Eurozona è un microcosmo degli squilibri globali che tormentano l’economia internazionale, e abbiamo bisogno di soluzioni simili al suo interno e nel mondo. I governi dei paesi che producono surplus esortano sempre i paesi che producono deficit a ripagare il debito, risparmiare di più e “vivere con i propri mezzi”. Ma l’economia globale e le economie dell’Eurozona si trovano ad affrontare una pesante assenza di domanda aggregata. Il mondo è pieno di risparmi, ma le opportunità di investimento profittevoli sono scarse, e ciò si riflette sulla debolezza dei consumi. La risposta giusta perciò non è che tutti si mettano a risparmiare di più. Sarebbe un disastro, perché deprimerebbe ulteriormente i consumi e quindi gli investimenti, e aggraverebbe i problemi di bilancio. Se paesi con ampi deficit commerciali (e perciò alti livelli di indebitamento) debbono risparmiare di più, i paesi con surplus devono risparmiare meno e spendere di più.
 
Squilibri di questa scala e di questa natura sono tutt’altro che positivi. Anzitutto, portano a destabilizzare i flussi di capitale tra le economie. Per esempio, la crisi finanziaria del 2007 e quella successiva dell’Eurozona sono state in pratica il risultato dei flussi di capitale tra le nazioni. Un sistema bancario con leverage eccessivo ha amplificato il problema, ma la causa primaria sono state le fughe di capitali dalle economie con eccesso di risparmio in cerca di guadagni maggiori. Come è avvenuto nelle economie in surplus, gli Stati Uniti, la Gran Bretagna e i membri dell’Eurozona che attraevano larghi flussi di capitale si sforzavano per farne un uso profittevole; invece di far alzare la produttività, i flussi di capitale hanno fatto salire il prezzo degli asset e incoraggiato un eccessivo indebitamento delle famiglie.
Gli squilibri sono sopravvissuti a entrambe le crisi, e ora stanno crescendo ancora, partendo da un livello già alto. Ovviamente ciò non è sostenibile. Al contrario della crisi finanziaria, la situazione attuale non ha niente a che fare con una domanda eccessiva nei paesi in deficit, ma avviene durante un contesto di stagnazione e un crollo del tenore di vita all’interno di queste economie. Le famiglie e le imprese di questi Stati risparmiano di più, ma non c’è stato nessun declino compensativo dei risparmi nel settore privato dei paesi in surplus. In questo contesto, i deficit commerciali costituiscono un freno per l’attività economica perché svuotano la domanda e l’occupazione, obbligando i governi a fare un passo avanti e riempire il buco con ampi deficit di bilancio. La domanda esterna su cui si basano i paesi in surplus è legata implicitamente alle insostenibili politiche di bilancio di questi paesi deficitari.
 
L’Eurozona sta provando ad agire affrontando gli squilibri commerciali con la deflazione nei paesi in deficit, ma le sue politiche hanno un forte difetto deflattivo, tanto nelle economie in surplus quanto in quelle in deficit. Questo implica una debolissima crescita economica, una caduta dei prezzi (paragonata al resto del mondo) e una disoccupazione più alta. Implica anche un aumento dei risparmi perché, quando i governi rendono più dure le politiche di bilancio, le imprese si tengono i capitali piuttosto che investirli, e le famiglie impaurite aumentano i risparmi e contengono i consumi. Il rischio è che il debito dei paesi in deficit aumenti ulteriormente (perché il valore dei debiti aumenterà, mentre diminuiranno i ricavi), esacerbando i problemi di bilancio e minando la loro capacità di pagare i creditori. Invece di rallentare la tensione giunta dagli Stati Uniti, l’Eurozona sta puntando ad avere un ampio surplus col resto del mondo, aumentando le tensioni commerciali.
I governi dei paesi che producono surplus, in particolare i cinesi e i tedeschi, spesso mettono in guardia dai rischi del protezionismo. Essi dimenticano di chiarire la connessione tra la struttura delle loro economie e il deficit commerciale (e l’eccessivo indebitamento) degli altri. In realtà, la vera minaccia all’ordine commerciale internazionale sono loro. Se gli Stati Uniti non possono riequilibrare la loro economia e portarla a una crescita sostenibile, c’è un rischio reale che varino misure protezionistiche. Altri paesi con ampi deficit commerciali possono seguire a ruota. Un simile riequilibrio sarebbe brutale per i paesi in surplus, e molti dei benefici del commercio globale e della finanza andrebbero perduti. Per prevenire questo, il G20 ha bisogno di trovare l’accordo su una strategia globale per riequilibrare la domanda. Ma è necessario che le economie in surplus riconoscano che sono parte del problema e sviluppino una strategia che miri a ridurre la loro dipendenza dalle esportazioni.
 
LIMES: Un “cavaliere bianco” cinese può salvare l’Europa? La Cina e le altre potenze emergenti sono davvero interessate nell’acquisto di azioni e infrastrutture?
TILFORD: Non credo che i governi colpiti dalla crisi in Europa debbano cercare l’aiuto cinese. Primo, la Cina avrà problemi, perché la sua economia sta rallentando rapidamente. Secondo, i cinesi hanno un’agenda precisa: sfruttare l’attuale debolezza dell’Europa per ottenere più vantaggi possibili per il loro paese, in questioni come la discussione sullo “status di economia di mercato”. Per un paese ricco come l’Italia guardare all’aiuto di un paese povero come la Cina per gli investimenti non ha senso, e non può essere un sostituto per la necessaria riforma dell’Eurozona. Gli investimenti cinesi giungerebbero con pesanti condizioni e non potrebbero risolvere il problema reale dell’Italia, le basse prospettive di crescita.


LIMES: “Il debito devono pagarlo le banche” e “Facciamo come l’Islanda" sono stati due slogan che hanno accompagnato le recenti proteste in Italia. La “via islandese” è perseguibile?
TILFORD: Capisco questi atteggiamenti, ma l’Europa non può fare come l’Islanda. L’Europa non è l’Islanda. L’Islanda in fondo è una cittadina di medie dimensioni che con una notevole svalutazione è stata in grado di utilizzare lo stimolo esterno per compensare la debolezza della sua economia interna. Lasciare che le banche europee collassino - come è accaduto in Islanda - avrebbe pesanti conseguenze economiche e sociali.

 
LIMES: In Europa e in Italia la disuguaglianza desta una crescente preoccupazione, soprattutto data l'elevata disoccupazione giovanile. Cosa si può fare?
TILFORD: Se la crescita economica è vista come dipendente dalla competitività delle esportazioni, i governi si concentreranno su provvedimenti mirati per le esportazioni ma non per l’economia nel suo complesso. Un’eccessiva attenzione alle esportazioni porta a politiche del lavoro che puntano a mantenere artificiosamente bassi i salari, con una redistribuzione del reddito dal lavoro al capitale che aumenta le disuguaglianze. Il declino continuo nella proporzione del reddito nazionale composto da stipendi e salari negli ultimi dieci anni, in quasi ogni economia europea, è uno dei principali ostacoli alla ripresa dei consumi privati. L’altra faccia della medaglia del declino dei salari - la considerevole ascesa nella proporzione del reddito nazionale dei profitti aziendali - non ha portato a un boom degli investimenti. Non è una sorpresa. Un’impresa può tagliare i salari senza colpire la domanda per i beni o servizi che produce. Ma questo non funziona se tale strategia viene perseguita da tutte le imprese contemporaneamente. La conseguente debolezza della domanda complessiva deprime gli incentivi per gli investimenti aziendali, e con essi la crescita della produttività. In breve, tagliare la proporzione dei salari nel reddito complessivo, accettare un’ascesa continua della disuguaglianza e aumentare il peso dei profitti aziendali nel reddito nazionale non è un modo per portare a un’espansione economica sostenibile. Ma è esattamente quello che accade quando i governi credono che la salvezza dell’economia stia nel conquistare una quota più ampia di esportazioni. 
 
L’altra ragione principale della disuguaglianza riguarda le capacità. Gli europei sono notevolmente compiaciuti delle loro capacità lavorative. Alcuni - i nordici, gli olandesi - vanno bene, ma lo scenario complessivo è frammentario, per usare un eufemismo. La Germania ha un buon apprendistato, la Gran Bretagna ha un elevato numero di università al top, la Francia possiede una buona istruzione tecnica. Altri paesi, soprattutto al sud, vanno male nella maggior parte degli indicatori.
Un’altra causa è una competizione inadeguata. In troppi settori, chi ricopre un incarico è protetto in ogni caso, con la giustificazione della “giustizia sociale” o della difesa dei “campioni nazionali”. Ciò conduce alla ricerca di rendita: la capacità di alcuni gruppi sociali di ottenere ricompense del tutto sproporzionate per il loro lavoro. Dove questa tendenza è più forte, i livelli di produttività sono più bassi.